La conversione di Paolo rivela la potenza della grazia, che sempre sovrabbonda dove abbonda il peccato (cf. Rm 5,20). Questa festa liturgica è presente in Italia già dal sec. VIII (testimoniando la grande importanza che da sempre i cristiani hanno dato a questo momento di fondamentale svolta nella predicazione apostolica) e conclude, in modo significativo, la settimana dellʼunità dei cristiani (unʼiniziativa la cui data ufficiale di nascita risale al 1908), ricordandoci che non cʼè vero cristianesimo, né tanto meno vero ecumenismo, senza una costante conversione.
Lʼincontro sulla via di Damasco infonde a Paolo una fede che lo rende fervente missionario, donandogli forza per testimoniare il Vangelo e ardente carità nella sollecitudine per tutte le Chiese (cf. 2Cor 11,28). «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Queste le parole che Paolo ricorda ai corinti: parole, ascoltate dal Signore in risposta alla sua richiesta di essere liberato da unʼinfermità, che diventano occasione per rinsaldare i suoi legami con la comunità di Corinto in un momento di gravi incomprensioni. Con i suoi interlocutori “ribelli”, Paolo preferisce vantarsi delle sue debolezze, perché nessuno lo valuti più di quello che è (cf. 2Cor 12,6).
Paolo non ci svela quale fosse lʼinfermità che lo affliggeva, ma il senso che ha dato a questa prova: «perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni» (2Cor 12,7). Attraverso la sofferenza (dalla quale per ben tre volte ha pregato per essere liberato, cf. 2Cor 12,8), la sua relazione con Cristo gli fornisce nuove chiavi di lettura sulla sua esistenza: non basta essere ebreo, israelita, della stirpe di Abramo; non basta tutto ciò che ha sopportato per essere ministro di Cristo: fatiche, prigionie, percosse, pericoli di morte, battiture, lapidazione, naufragi; non bastano gli innumerevoli viaggi e pericoli (di fiumi, di briganti, di pagani, di connazionali, di falsi fratelli), pericoli in città, nel deserto, sul mare; non bastano le fatiche, le veglie, la fame e la sete, i digiuni, il freddo (Cf. 2Cor 11,22-27). Il suo spendersi senza sosta – «tutto io faccio per il Vangelo» (1Cor 9,23) aveva scritto precedentemente ai corinti – dà senso pieno alla sua vita nella misura in cui la sua (caparbia) debolezza di uomo è strumento eletto da Cristo per la Sua manifestazione («Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me», Gal 2,20).
Solo agendo così, con tutto questo impegno, ma con la consapevolezza di tutta la sua inadeguatezza al compito affidatogli, Paolo sente di riuscire a rispondere a quanto Anania aveva profetizzato sulla sua vita nel momento in cui gli conferiva il battesimo: «strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele» (At 9,15).
Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede in Cristo in vasi di creta (cf. 2Cor 4,7), tutti noi (se veramente ci crediamo) possiamo portare «nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (cf. 2Cor 4,10). Quindi perché, pur nel nostro quotidiano impegno per una vita santa, non gloriarci delle nostre debolezze, se abbiamo a cuore che si manifesti la potenza di Dio in noi?